LA MALA SIGNORIA IN SICILIA




STORIE DI SICILIA - LA MALA SIGNORIA




Ugo di Moncada, o Hugo de Moncada (Valencia, 1466 o 1467 – Salerno, 28 maggio 1528), è stato un politico e militare spagnolo, fu Viceré di Sicilia dal 1509 al 1516 e viceré di Napoli nel periodo settembre 1527-28 aprile 1528.


Il casato dei Moncada apparteneva alla più antica nobiltà catalana e si fregiava, per rimarcare la propria antichità, di discendere da un cavaliere tedesco, figlio del duca di Baviera, giunto nella penisola iberica per combattere gli infedeli. Quasi nulla si sa della sua infanzia: come molti aristocratici, poco più che bambino fu mandato a corte, presso Ferdinando d'Aragona, il Cattolico. Impossibile stabilire quando entrò nell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, se giovanissimo, prima della partenza per l’Italia dove avrebbe trascorso tutta la sua vita, o successivamente, dato che le fonti offrono dati discordanti anche su questo punto. Non ancora diciottenne ottenne dal sovrano aragonese il permesso di dedicarsi all’attività militare. Si recò quindi a Parigi, dove il re Carlo VIII stava organizzando la prima spedizione in Italia (1494). Al seguito dell’esercito francese si fermò a Roma, dove frequentò il gruppo di valenzani dei quali papa Alessandro VI, anch’egli originario del regno di Valenza, amava attorniarsi, e conobbe Cesare Borgia. Sotto le insegne del re di Francia non ebbe modo di mostrare particolari capacità militari, anche perché, non appena giunto a Napoli, alla notizia dell’entrata in guerra di Ferdinando il Cattolico in difesa del sovrano napoletano suo parente, lasciò l’esercito francese ed entrò al servizio di Cesare Borgia. Il Moncada divenne uno dei più fidati consiglieri di Borgia e partecipò a tutte le sue imprese militari per la costituzione di uno Stato nell’Italia centrale. Nel 1502, quando alcuni dei capitani già fedeli a Borgia gli si ribellarono, il M. continuò a servirlo. Egli, insieme con Michele Corella, fu protagonista dello scontro consumatosi a Calmazzo, vicino Fossombrone, con Vitellozzo Vitelli e Paolo Orsini, decisi a reinsediare a Urbino Guidubaldo I da Montefeltro. Malgrado il Moncada e Corella fossero al comando di cento fanti e duecento cavalieri, furono battuti e il Moncada fu preso prigioniero: il combattimento riconsegnò così Urbino al legittimo duca. Liberato, il Moncada ritornò al servizio di Borgia, impegnato nella primavera del 1503, dopo la caduta di Ceri, ad attaccare le fortezze conservate da Guidubaldo I da Montefeltro nell’Italia centrale. Tuttavia, il suo accampamento dinanzi a Cagli non sortì alcun effetto ai fini strategici di Borgia. Nell’agosto 1503, alla morte di papa Alessandro VI, il Moncada abbandonò il servizio di Cesare Borgia, rispondendo all’appello del Gran capitano, Consalvo de Córdoba, che richiamava al servizio di Ferdinando il Cattolico tutti gli ufficiali e i soldati suoi sudditi che militassero in altri eserciti. Il Moncada partecipò quindi alla battaglia del Garigliano, contribuendo con la sua azione valorosa alla vittoria. Avendo dato prova di notevoli capacità, nel 1504 fu inviato in Calabria a sedare alcuni disordini. Per ricompensarlo dei risultati ottenuti, il 28 nov. 1506 gli fu conferito il titolo di governatore della Calabria e il 31 maggio 1507 una rendita annua di quattrocento ducati. Negli anni immediatamente successivi, secondo alcuni autori, compì azioni di corsa contro i pirati barbareschi stanziati sulle coste nordafricane. Probabilmente per l’esperienza maturata in tale attività, nel 1509, assegnato Ramón de Cardona al governo di Napoli, fu nominato vicerè di Sicilia da Ferdinando il Cattolico. L’isola in quel momento era la principale roccaforte al confine con il mondo musulmano e barbaresco. A sottolineare il compito militare della sua carica, il Moncada fu insignito anche del titolo di capitano generale. Il Moncada giunse a Palermo il 7 dic. 1509 e subito prese possesso del Regno. Proprio in quell’anno le truppe aragonesi avevano conquistato la città di Orano in Algeria; l’anno seguente, una flotta comandata dall’ammiraglio Pedro Navarro conquistò Tripoli, importante snodo commerciale, oltre che piazzaforte militarmente rilevante. Nel 1511, il M. fu nominato governatore di Tripoli. In questa veste egli elaborò i Capitoli della dogana tripolina: sulla base di tale normativa, il lavoro di controllo dell’attività mercantile era ripartito fra il secreto, il credenziere, il collettore, il notaio e due portieri. Annualmente i conti, minuziosamente annotati sui libri contabili, dovevano essere presentati ai maestri razionali del regno di Sicilia. Inoltre, con un bando, pubblicato a Catania il 16 ott. 1511, sollecitò il trasferimento nel presidio africano di famiglie di sudditi siciliani. Qui gli emigrati avrebbero ottenuto un’abitazione e un lotto di terreno da coltivare, una franchigia fiscale di dieci anni e l’assicurazione di non essere inquisiti per reati di lieve entità. Nel 1513 al Moncada fu assegnata a titolo vitalizio la piazzaforte di Tripoli e dodicimila ducati all’anno, che sarebbero stati prelevati dagli introiti della dogana. L’impegno profuso in Africa necessitava di una grande quantità di denaro; tuttavia, da tempo, il regno di Sicilia attraverso i suoi organi istituzionali avanzava progetti alternativi a quelli della corona sull'impiego delle risorse. La nomina del Moncada, risoluto e fedele servitore di Ferdinando d’Aragona, al ruolo di vicerè era anche un segnale a quella parte di aristocrazia siciliana particolarmente riottosa nei confronti della volontà regia. L’opposizione si era manifestata chiaramente durante la celebrazione del Parlamento nell’agosto 1511, quando il Moncada aveva richiesto un nuovo donativo, anche se in quel momento i siciliani non avevano ancora concluso i pagamenti relativi al donativo precedentemente offerto. Durante la riunione dei tre bracci parlamentari, era stata avanzata la proposta di modifica del sistema di tassazione applicata alle università. Tale innovazione non era stata approvata; tuttavia, la discussione relativa aveva fatto emergere la frattura interna alla nobiltà dell’isola. A inasprire i rapporti con quel gruppo di aristocratici apertamente contrari alla Corona contribuì anche l’esito del processo contro Ugo di Santapau, marchese di Licodia. Questi, che si era macchiato dell’omidicio di Giovanni Landolina, barone di Imbaccari, legato alla corte del vicerè, fu condannato a morte senza la possibilità di una composizione finanziaria della pena per espressa volontà del Moncada. Il malcontento dei gruppi dirigenti, in particolare messinesi, era infine inasprito dalla riforma monetaria che il Moncada promosse nel regno, equiparando il rapporto fra oro e argento praticato nell’isola a quello medio europeo in modo da sfavorire i processi speculativi. Motivi di scontento non mancavano anche fra la popolazione. A Palermo, nel 1511, si erano avuti disordini in occasione dello sbarco in città delle truppe spagnole capitanate da Diego de Vera provenienti dall’Africa. Privi di paga da mesi, i soldati avevano saccheggiato la città, provocando le ire dei palermitani che avevano dato luogo a un moto di rivolta. Altra ragione di disaffezione nei confronti della Corona era costituito dal radicamento nell'isola del tribunale del S. Uffizio, statuito formalmente da Ferdinando il Cattolico sin dal 1487 e insediatosi effettivamente nel 1500, che, a partire dal 1511, impresse una fortissima accelerazione alla macchina inquisitoriale. Diverse proteste nei confronti degli inquisitori siciliani furono avanzate nel corso del 1514 a Ferdinando, sia da parte del regno durante la celebrazione del Parlamento, sia da parte del Senato di Palermo, che il 29 ottobre inviò un ambasciatore, Giovan Vincenzo Imperatore, a denunciare il mancato rispetto da parte degli ufficiali inquisitoriali dei privilegi della città. Alle proteste Ferdinando non potè dare compiuta soddisfazione, poiché si spense nel gennaio 1516. La notizia della morte del re, tenuta celata dal M., fu diffusa sull'isola dal siciliano Pietro Cardona, conte di Golisano. Cardona sosteneva che, morto Ferdinando, il vicerè da lui nominato dovesse essere considerato decaduto. Tale affermazione aveva radici nella tradizione giudiziaria siciliana medievale; tuttavia alcune prammatiche emanate nel corso del Quattrocento garantivano la continuità dell’amministrazione fino a diversa disposizione del nuovo re. Le affermazioni di Cardona trovarono ascolto in quella parte dell’aristocrazia isolana non favorevole al Moncada, primi fra tutti Simone Ventimiglia, marchese di Geraci, e Federico Abbatelli Cardona, conte di Cammarata, ai quali si unirono presto altri esponenti della nobiltà (tra gli altri: Guglielmo Ventimiglia barone di Ciminna, Girolamo Filingeri conte di San Marco, Matteo Santapau marchese di Licodia). Mentre nelle strade delle città scoppiavano i primi tumulti che avevano come obiettivo principale le sedi dell’Inquisizione, i nobili ribelli, oltre alla richiesta di destituzione del Moncada, stesero un documento in cui si chiedeva di rinegoziare, con più vantaggiose condizioni per gli isolani, il patto che legava il regno al sovrano. Invano, per sedare il clima, il Moncada finse l’arrivo di un messaggero dalla corte con la cedola reale della riconferma del suo mandato. Messo in fuga da Palermo, si rifugiò a Messina presso Giovanni de Luna, conte di Caltabellotta, che gli diede asilo, nella speranza di guadagnare per Messina un futuro di capitale del regno, mentre i nobili rivoltosi a Palermo assumevano compiti di governo. Nel marzo del 1516 giunsero in Sicilia due funzionari inviati dal nuovo sovrano, Carlo d’Asburgo, per reperire informazioni sull’accaduto: malgrado le proteste del Moncada, che da Messina chiedeva la ferma punizione dei ribelli, gli emissari del re si recarono a Palermo. Il loro primo compito era quello di ottenere il giuramento degli isolani nei confronti del nuovo sovrano; pertanto gli appelli del M. caddero nel vuoto. Nell’estate 1516 sia il Moncada, sia i principali esponenti degli aristocratici siciliani in rivolta, il conte di Golisano e il conte di Cammarata, furono invitati a Bruxelles a presentare le loro ragioni, mentre in Sicilia come presidente del regno fu lasciato il conte di Caltabellotta. A Bruxelles, malgrado la destituzione dal governo del regno di Sicilia, il M. riuscì a guadagnare la stima del nuovo sovrano, aiutato anche alla mediazione del potente gran ciambellano Guillaume de Croy, signore di Chièvres, che divenne uno dei suoi principali protettori a corte. Grazie al suo intervento, il M., di ritorno in Italia, esercitò l’ufficio di ammiraglio nel regno di Napoli. Intraprese quindi un’incisiva azione militare nel Mediterraneo. Nel 1516 i pirati barbareschi erano riusciti a impadronirsi di Algeri; il M. organizzò una spedizione per riconquistarla: sulla spiaggia antistante la città sbarcarono circa seimila soldati. Malgrado tale dispiegamento di forze, l’azione progettata non fu portata a termine. Gli assediati, comandati dal temibile Khair Ad-Dīn detto Barbarossa, chiusero la flotta cristiana nella morsa delle proprie navi e il Moncada, constatato lo svantaggio numerico delle sue truppe, si precipitò a imbarcarsi. Durante la notte un violento fortunale distrusse l’intera flotta all’ancora dinanzi il porto di Algeri, causando la morte di più di due terzi dei soldati e consentendo a Barbarossa di catturare un nutrito gruppo di prigionieri. Rientrato in Italia, il M. espletò diversi incarichi militari al servizio del re. Il 30 marzo 1517 gli fu concesso il priorato di S. Eufemia, in Calabria, con la conferma di tutti i privilegi di cui avevano goduto i suoi predecessori. Il 27 apr. 1517, a seguito della morte dell’ammiraglio don Bernardo de Villamarí, fu nominato consigliere regio del regno di Napoli e gli fu confermata una rendita annua di quattrocento ducati, sui proventi di diversi centri della Calabria. In quello stesso anno il Moncada sostituì il conte di Golisano in una capitania di uomini d'arme nel regno di Napoli, a compensazione dei torti che aveva ricevuto da quest'ultimo nel regno di Sicilia. In considerazione dei meriti maturati dal casato dei Moncada, nel 1519, gli fu promessa la prima capitania vacante nell’esercito impegnato nella Penisola italiana, dato che il titolo di capitano, di cui al momento ancora godeva con le funzioni connesse, andava restituito al conte di Golisano. Nel 1520, dopo uno scontro nel mare di Sardegna con una flotta corsara che gli costò una grave ferita, fu incaricato da Carlo V di allestire una potente flotta. Così a capo di tredici galere e di una settantina di navi, con un piccolo esercito, che superava le duemila unità tra fanti e cavalieri, sbarcò sull’isola delle Gerbe, l’odierna Djerba, occupata dai pirati barbareschi. Dopo un giorno di strenui combattimenti il M., seppure ferito a un braccio, ottenne la resa dell’isola con la promessa di versare dodicimila ducati l’anno all’imperatore. Pertanto, Carlo V concesse al Moncada, in compenso delle spese e dei danni sofferti, diecimila ducati d’oro: il denaro sarebbe stato prelevato dai proventi del frumento estratto dalla Sicilia e destinato a Djerba. Nel novembre di quell’anno, il vicerè di Sicilia Ettore Pignatelli, duca di Monteleone, consegnò quattro vascelli al M., affinché continuasse la sua politica militare nel nord Africa: impegno che fece guadagnare al Moncada, nel 1522, la carica di maestro giustiziere del Regno di Sicilia. Nel frattempo, nel 1521, in un'altra azione militare, su ordine di Carlo V, a capo di alcune truppe, aveva frenato il soccorso francese alla città assediata di Tournai; in questo modo aveva permesso agli imperiali la conquista della città, rimasta in mano asburgica fino al 1667. Probabilmente per tale impresa, il 20 maggio 1521 gli fu conferito il comando di Castel dell’Ovo, a Napoli, con la possibilità di esercitarlo direttamente o attraverso un vice, a condizione di redigere un inventario in triplice copia delle munizioni e delle armi e di tutte le altre suppellettili presenti all’interno della fortezza e di consegnarlo alla Regia Camera della Sommaria. L’anno successivo, il 17 marzo 1522, gli fu concessa la possibilità di estrarre dal regno di Sicilia una quantità di grano, i cui diritti di estrazione equivalessero a mille quattrocento ducati in oro, a risarcimento delle somme dovutegli dalla corona e mai pagategli. Meno di un mese dopo fu beneficiato dei diritti di vendita delle funzioni fiscali, del focatico e della tassa sul sale della città di Taverna e dei suoi casali, in Calabria. Il prestigio acquistato dal Moncada era tale che, nell’aprile del 1522, a Roma, si vociferava del suo arrivo in qualità di ambasciatore di Carlo V presso la S. Sede: voce smentita dalla nomina a quell’incarico nello stesso anno di Luigi Fernandez de Córdoba, duca di Sessa. Nel gennaio del 1525, di stanza a Genova, tentò di recuperare al dominio imperiale i territori di Varazze e di Savona, conquistati da Andrea Doria, alleato del sovrano francese. Al comando di diciotto galere, il Moncada bombardò la città di Varazze per poi sbarcare alla testa di tremila fanti sulla spiaggia antistante l’abitato. Gli assediati respinsero l’attacco, facendo pochi morti e prendendo molti prigionieri, fra i quali lo stesso Moncada, liberato solo dopo la battaglia di Pavia. Nella primavera del 1526 il Moncada fu inviato da Carlo V in Francia per richiamare Francesco I al rispetto del trattato di Madrid; tuttavia, alla notizia della costituenda lega di Cognac, fu incaricato di tornare in Italia e di trattare con Clemente VII affinché non si alleasse con i francesi. Il viaggio in Italia fu scandito da diverse tappe: a Milano assediata promise soccorsi contro il nemico così come a Siena, malgrado per via epistolare pregasse l’imperatore di giungere a un accordo diplomatico con il re di Francia. Giunto a Roma, dietro precisa indicazione di Carlo V, strinse un forte legame con il cardinale Pompeo Colonna, già colpito insieme con altri esponenti del suo casato da un monitorio papale per aver occupato Anagni e altre località dello Stato della Chiesa. Il Moncada, giunto a Roma, insieme con l’ambasciatore imperiale, il duca di Sessa, intavolò trattative con Clemente VII. Per guadagnare la fiducia del pontefice, restio ad accettare le proposte dell’imperatore, e per non insospettirlo nei confronti dei Colonna, sempre pronti alla minaccia a mano armata, il Moncada propiziò un accordo con la potente famiglia, che però si rivelò effimero. Nella notte del 19 sett. 1526 Pompeo, Ascanio e Vespasiano Colonna al comando di tremila fanti e ottocento cavalieri giunsero alle porte di Roma, nei pressi della chiesa di S. Giovanni in Laterano. All’alba entrarono a Roma e la misero a sacco. Non è chiaro se il Moncada, che accompagnava i principali esponenti della famiglia, abbia effettivamente partecipato al saccheggio di S. Pietro. La sera stessa, tuttavia, malgrado le proteste del cardinale Colonna, il Moncada raggiunse a Castel Sant' Angelo Clemente VII, che lì si era rifugiato, e gli restituì il pastorale d’argento e la mitra che erano stati rubati dai soldati quella stessa mattina. La restituzione fu il pretesto per intavolare nuove trattative diplomatiche e stipulare una tregua di tre mesi. Stretto questo accordo, il Moncada partì alla volta di Napoli; era in quella città al momento del sacco di Roma del 1527. A Napoli, il vicerè Charles de Lannoy, ammalatosi di peste ad Aversa, in punto di morte lo nominò luogotenente generale del Regno di Napoli (non fu quindi vicerè come erroneamente attestato da molti storici), in attesa della nomina del nuovo vicerè. In qualità di luogotenente, quando giunse la notizia dell’avanzata verso sud delle truppe capitanate dal generale Odet de Foix, signore di Lautrec, il Moncada si assunse la responsabilità della difesa di Napoli. Prevalsa l’idea di non affrontare il nemico in campo aperto, come proponeva Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, ma di attenderlo dentro le mura, il M. fece costruire nuovi bastioni, muniti di possenti cannoni. Inoltre organizzò le truppe presenti in città, disertata dai suoi abitanti, fuggiti nel timore dell’assedio e del contagio di peste che serpeggiava nel regno. Nel mese di aprile 1528 Napoli si trovò interamente circondata dalle truppe nemiche; il golfo era presidiato dalle otto galere al comando di Filippino Doria, che impedivano anche via mare l’accesso alla città. Nel tentativo di guadagnare un percorso verso l’esterno, il Moncada propose di forzare il blocco marittimo. Narrano le cronache che, dinanzi alle obiezioni mosse da alcuni dei gentiluomini che componevano il Consiglio di guerra del Regno di Napoli, riunitosi nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore, e che consigliavano un atteggiamento maggiormente guardingo, il Moncada minacciò di porre a sacco i borghi costieri di Vico, Massa e Castellammare e «di far oltraggiare dai suoi Spagnoli quante donne v’erano maritate e zitelle» (Racconti di storia napoletana, p 673). Dinanzi a tale risolutezza, fu stabilito di allestire una flotta in grado di affrontare le navi di F. Doria. Sorse a quel punto un dissidio sull’affidamento del comando, al quale aspiravano sia il principe d’Orange, in qualità di generale dell’esercito imperiale, che il Moncada, grande ammiraglio del Regno di Napoli. Nell’impossibilità di comporre la divergenza con la rinuncia di uno dei due, il comando fu affidato al marchese del Vasto, affiancato dal genovese Fabrizio Giustiniani, capitano della flotta imperiale. Il Moncada fu costretto a partecipare all’impresa da semplice soldato; le cronache riportano che il suo atteggiamento servì da esempio a molti gentiluomini, come Ascanio e Camillo Colonna, Cesare Ferramosca, Francesco Sanseverino, che si imbarcarono per dare mostra del loro valore militare. Durante la battaglia navale svoltasi nel golfo di Salerno il 28 aprile, il Moncada malgrado una ferita a un braccio continuò a combattere strenuamente e ad animare i suoi, finché fu sbalzato fuori dalla nave e cadde, morto, in mare. I napoletani, recuperato il corpo, gli tributarono fastosi funerali l’8 giugno; fu sepolto ad Amalfi. Nel 1537 la sua salma fu traslata a Valenza, nella chiesa del convento di Nuestra Señora del Remedio, fondata dallo zio Guillem Ramón Moncada, cancelliere del Regno di Valenza e vescovo di Tarazona. Il giudizio complessivo sulla figura e l’opera del Moncada è estremamente controverso. La tradizione spagnola rinviene in lui una delle glorie nazionali, sia dal punto di vista militare che da quello relativo alla tradizione di governo. A completare il suo profilo da «perfetto capitano» dell’età rinascimentale sovviene anche l’attribuzione al Moncada di un poema in ottave in lingua valenzana, di cui però restano solo i primi quattro versi. La tradizione italiana, al contrario, tramanda un giudizio estremamente negativo, inaugurato da Paolo Giovio che denigra nei suoi Elogi la figura del Moncada, ricordando le tumultuose circostanze della sua morte, di due anni successiva all’oltraggio perpetrato ai danni di Clemente VII: «ma don Ugo due anni dapoi portò la pena degna della scelerata impresa, et del sarilegio ch’egli haveva fatto, quando sopra Salerno egli combattè nella battaglia navale con le Galee del Doria, le quali erano governate dal Conte Philippo Doria, huomo molto animoso. Percioché in quella sanguinosissima battaglia furono tagliati a pezzi più di mille soldati spagnuoli, i quali dianzi havevano saccheggiata Roma, et Don Ugo lor capitano anch’egli, perduta l’armata, et abbattuto lo stendardo della sua nave capitana, spingendo indarno 'l scudo contra tante archibugiate che gli erano tirate fu ammazzato: talche gli huomini pij credettero che ‘l grande Iddio havesse voluto honoratamente punire tanto sacrilegio, e in un medesimo tempo molto si maravigliarono ancor, perché la fortuna havesse fatto sì grande Don Ugo, parendo ch’egli, il quale in nessun luogo non era mai stato vincitore, ma per tutto haveva perduto, con mal modo et con cattivo esempio havesse riportato gran premio, et veramente odioso per le ribalderie ch’egli haveva fatte» (p. 437). In accordo con tale giudizio, le cronache cinquecentesche che narrano la morte del M. auspicano che egli stia «alla Stigia palude combattendo con li diavoli» (Racconti di storia napoletana, p. 673), mentre lo storico Giovanni Antonio Summonte a proposito della morte in battaglia del M., sottolinea come «D. Ugo meritò di avantaggio quella morte, e peggio, per essere egli stato nel sacco di Roma il primo, e per aver anco saccheggiato la Sacrestia di San Pietro» (p. 152). La storiografia siciliana prende spunto dai versi, riportati dallo storico isolano ottocentesco Isidoro La Lumia, del letterato palermitano Giano Vitale, vissuto alla corte di Leone X, per il quale il M. era «sordidior Verre, publica pestis» (La Lumia, p. 109). La letteratura posteriore confermerà la leggenda nera, rimarcando quali tratti principali del Moncada «una cupidigia e [...] una lascivia inenarrabile» e sottolineando come la sua opera di governo nell’isola sia stata condotta «con crudeltà, avarizia, e sfacciata libidine» (Maurolico, p. 319).


Fonti e Bibl.: A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, Genoa 1537, cc. n.n.; B. Castiglione, Lettere del conte Baldesar Castiglione, a cura di P. Serassi, I, Padova 1769, p. 22; Correspondencia de don Hugo de M. y otros personajes con el rey Católico y el Emperador Carlos V, in Colección de documentos inéditos para la historia de España, XXIV, Madrid 1854, pp. 79-508; A. Giustinian, Dispacci di Antonio Giustinian ambasciatore veneto in Roma dal 1502 al 1505, a cura di P. Villari, I, Firenze 1876, p. 155; II, ibid., p. 213; D.G. Fuscolillo, Le cronache delli antiqui Ri del regno di Napoli, in Archivio storico per le province napoletane, I (1876), p. 78; F. Del Carretto, Cronache relative ai tumulti avvenuti in Sicilia nei primi anni del regno di Carlo V. Historia de expulsione Hugonis de M., a cura di S. Cozzo, in Archivio storico siciliano, V (1880), pp. 151-174; S. Volpicella, Memorie di Ferrante Carafa, marchese di S. Lucido, in Archivio storico per le province napoletane, V (1880), p. 242; B. Capasso, Napoli descritta nei principi del secolo XVI da Giulio Cesare Capaccio, ibid., VII (1882), p. 784; Cronaca siciliana del secolo XVI, a cura di V. Epifanio - A. Gulli, Palermo 1902, pp. 6-8, 10, 12 s., 15 s., 21, 23, 25 s., 50, 55, 91, 101-103; Racconti di storia napoletana, in Archivio storico per le province napoletane, XXXIII (1908), pp. 668 s., 672 s.; Relación de la derrota y muerte de don Hugo de M., in Memorias de la Real Academia de la Historia, XI (1914), pp. 451-461; J.E. Martínez Ferrando, Privilegios otorgados por el Emperador Carlos V en el Reino de Nápoles (Sicilia aguende el Faro), Barcelona 1943, pp. 171 s.; Correspondenz des Kaisers Karl V., a cura di K. Lanz, I (1513-32), Frankfurt a.M. 1966, pp. 213-216; P. Giovio, Gli elogi…, Venetia 1559, pp. 433-438; P. Collenuccio da Pesaro - M. Roseo da Fabriano - T. Costo, Compendio dell’istoria del regno di Napoli, II, Napoli 1721, p. 116, 240 s.; G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, Napoli 1749, pp. 148, 150-152; G.E. Di Blasi Gambacorta, Storia cronologica dei vicerè, luogotenenti e presidenti del regno di Sicilia, Palermo 1842, pp. 141-156; T. Fazello, Della storia di Sicilia deche due…, III, Palermo 1817, pp. 512, 514, 516-527; F. Maurolico, Della storia di Sicilia, Palermo 1849, pp. 319-325; J. Raneo, Libro donde se trata de los Vireyes lugartenientes del Reino de Nápoles y de las cosas tocantes a su grandeza, in Colección de documentos inéditos papa servir a la historia de España, XXIII, Madrid 1853, pp. 77-86; G. De Baeza, Vida del famoso caballero don Hugo de Moncada, in Colección de documentos inéditos para la historia de España, XXIV, Madrid 1854, pp. 17-78; G. Marciano - D.T. Albanese, Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto, Napoli 1855, p. 120; F.D. Guerrazzi, Vite degli uomini illustri d’Italia in politica e in armi dal 1450 al 1830, I, Vita di Andrea Doria, Milano 1863, pp. 100-102; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, V, Napoli 1865, pp. 440 s., 444, 447 s., 452-458; J.M. Puig Torralva - F. Martí Grajales, Estudio histórico-crítico de los poetas valencianos de los siglos XVI, XVII y XVIII, Valencia 1882, pp. 28-30; I. La Lumia, Storie siciliane, III, La Sicilia sotto Carlo V imperatore (1516-1535), Palermo 1882, pp. 41-109; C. Ravioli, Le guerre dei sette anni sotto Clemente VII, assalto, presa e sacco di Roma, l’assedio e la perdita di Firenze dall’anno MDXXIII al MDXXXI sui documenti ufficiali, in Archivio della Società di romana di storia patria, VI (1883), p. 311, 313, 316-319; F. Barado Font, Museo Militar: historia del ejército español, I, Barcelona 1884, p. 560; F. Bonazzi, La resa di Sorrento a Filippo Doria, in Archivio storico per le provincie napoletane, XII (1887), pp. 41 s.; C. Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto, Roma 1897, p. 260, 265, 276-279, 289; C. Corso, Per la cacciata di don U. M., in Archivio storico per la Sicilia orientale, VI (1909), pp. 372-376; G. La Mantia, La secrezia o dogana di Tripoli ed i Capitoli della sua amministrazione approvati e riformati dal vicerè di Sicilia negli anni 1511 a 1521, in Archivio storico siciliano, XLI, (1917), p. 471, 473 s., 478, 482, 485 s.; Id., La Sicilia e il suo dominio nell’Africa settentrionale dal secolo XI al XVI, in Archivio storico siciliano, XLIV (1922), pp. 215-218, 221-224; P.A. Pérez Ruiz, Glorias de Valencia. Biografias de hijos immortales del Reino, I, Valencia 1953, pp. 159-167; G. Coniglio, I vicerè spagnoli di Napoli, Napoli 1967, pp. 32 s.; F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino 1971, ad ind.; G. D’Agostino, Il governo spagnolo nell’Italia meridionale (Napoli dal 1503 al 1580), in Storia di Napoli, V, 1, Napoli 1978, pp. 40-42; C.A. Garufi, Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo 1978, pp.149-151; I. Cloulas, I Borgia, Roma 1988, p. 306, 319, 334; V. Di Giovanni, Palermo restaurato, a cura di M. Giorgianni - M. Santamaura, Palermo 1989, pp. 288-292; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro - G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, in Storia d’Italia, XVI, Torino 1989, pp. 122-135; F. Renda, L’Inquisizione in Sicilia. I fatti. Le persone, Palermo 1997, pp. 47-49; A. Giuffrida, La finanza pubblica nella Sicilia del ‘500, Caltanissetta-Roma 1999, pp. 278 s.; S. Fernández Conti, Hugo de M., in La Corte de Carlos V, a cura di J. Martínez Millán, III, Madrid 2000, pp. 284-286; C.J. Hernando Sánchez, El reino de Nápoles en el Imperio de Carlos V, Madrid 2000, p. 64, 188, 221, 229, 235, 238, 248-250, 271, 279, 351, 354, 358, 360, 363 s., 367, 370; F. López de Gómara, Guerras de mar del Emperador Carlos V, a cura di M.A. de Bunes Ibarra - N.E. Jiménez, Madrid 2000, pp. 105, 110, 113; S. Giurato, Un vicerè siciliano: Don U. de M., in Trimestre, XXXV, (2002), pp. 63-79; Id., La Sicilia di Ferdinando il Cattolico. Tradizioni politiche e conflitto tra Quattrocento e Cinquecento (1468-1523), Soveria Mannelli 2003, pp. 267-288, 294-300.



Commenti

Post più popolari