QUELL'INFELICE CONNUBIO ESISTENTE TRA ARROGANZA E IGNORANZA
Si deve considerare più ignorante chi non sa nulla di una data cosa
oppure chi, sapendone poco e male, presume nondimeno di conoscerla in maniera
adeguata?
Non si tratta per niente di una
curiosità accademica, ma di una questione che ha un notevole impatto sulla
nostra vita quotidiana; e che è particolarmente vistosa nella società di massa,
popolata da una folla di sofisti i quali, in buona o in mala fede, sono
costantemente impegnati a piazzare della merce culturale di cui nulla
conoscono, se non, appunto, le tecniche di vendita più efficaci. Situazione che
è, evidentemente, assurda, come lo sarebbe se tutti i fornai, o la gran parte,
non sapessero nulla della farina, del lievito, della impastatrice, ma
conoscessero a perfezione la dialettica con cui convincere i clienti ad
acquistare il loro pane e a persuaderli della sua eccellenza; o come se gran
parte dei giardinieri non s'intendessero affatto di piante, di innesti e di
concimi, anzi non avessero neppure il dono d'un minimo di «pollice verde», ma
in compenso sapessero come far credere che nessuno sarebbe capace di coltivare
un roseto o mettere un olivo a dimora, meglio di come sarebbero in grado di
fare loro. La società di massa ha trasformato ogni forma di artigianato e, di
conseguenza, ogni forma di apprendimento, in una tecnica di produzione
industriale; anche la cultura, pertanto, soggiace in pieno a tale logica. Un
tempo i rampolli delle famiglie aristocratiche destinavano circa tre anni della
propria vita al compimento del «Gran Tour», vero e proprio viaggio di
formazione, che coronava gli studi superiori e universitari e, toccando le
maggiori città e luoghi d'arte del continente europeo, permetteva loro di
formarsi una diretta esperienza delle lingue, delle abitudini, della politica,
dell'economia, del teatro, della musica, nei diversi Paesi. Oggi le persone che
viaggiano per lavoro o per piacere sono enormemente cresciute di numero, ma non
si può dire che il fenomeno abbia investito
anche i viaggi culturali, i quali, spesso, si ridicono a una o due
settimane, in ambito scolastico, sotto forma di gemellaggi e scambi culturali
o, più spesso, come puro e semplice «viaggio d'istruzione»: ma quanto di
realmente istruttivo vi è in simili iniziative? Si parte digiuni di ogni
preparazione culturale, e ci si sposta sulle autostrade in pullman gran
turismo, con l'aria condizionata e col televisore, sicché i giovani arrivano a
destinazione senza aver visto letteralmente nulla dei luoghi attraversati; si giunge
una capitale e si prende alloggio, su prenotazione, in un albergo che somiglia
a qualunque altro albergo di qualunque altra parte del mondo; si scorrazza qua
e là per piazze, musei e gallerie, seguendo distrattamente un cicerone che
ripete quelle quattro frasi fatte; si mangia in qualche fast-food, senza nulla
assaggiare della cucina locale; si fa una capatina in qualche ambientino
«caratteristico», dove tutto è artefatto, ad uso e consumo dei creduli turisti;
e, ovviamente, si dedica almeno qualche sera all'immancabile discoteca o altro
locale di divertimenti standard. Infine si rientra a casa, sempre viaggiando in
autostrada, magari di notte; e, se si fa una sosta per mangiare qualche cosa,
ciò avviene in un anonimo autogrill, quasi identico a quelli nostrani, dove si
acquisteranno gli ultimi ricordini locali, sotto forma di oggetti industriali
made in China o in South Korea. E questo sarebbe un viaggio culturale? Eppure,
chi lo ha fatto rientra a casa con la ferma convinzione di aver visto e conosciuto
i luoghi vistati; anche se di Parigi, ad esempio, non avrà visto altro che Disneyland, e di Praga non
ricorderà altro che la piscina dell'albergo o, magari, il pranzo da McDonald's.
Sorge perciò, inevitabile, la domanda: è meglio non sapere nulla, o credere di
sapere, pur conoscendo poche cose e, per giunta, in una prospettiva
discutibile? Che cosa è preferibile: un ragazzo che sa fare bene il falegname,
l'elettricista o il geometra, oppure un diplomato o un laureato che non riesce
a fare un discorso o a scrivere neanche mezza pagina, senza fare almeno dieci
errori di punteggiatura, di ortografia, di sintassi e perfino di grammatica?
Vale davvero la pena di girare mezzo mondo con le fette di salame sugli occhi,
o non è meglio restarsene a casa propria, ma nutrendo il cuore e la mente di
buone letture, di buona musica, di buone conversazioni con poche persone
intelligenti, e di riflessioni personali? Il contadino che ha fatto la terza
media, ma che sa fare bene il proprio lavoro e che lo fa, soprattutto, con
passione, non è affatto una persona ignorante. Quanto meno, non lo erano i
contadini di due o tre generazioni fa: legati alla terra da un rapporto che non
era solo economico; perfetti conoscitori dei ritmi della natura; coscienti dei
propri limiti e dotati del senso del mistero: erano persone profondamente
radicate nel mondo, sagge, pazienti, fiduciose. Altro che ignoranti! Dobbiamo
dirla tutta? Fra i professori universitari che abbiamo conosciuto, c'erano
persone più ignoranti di quei contadini; perché, sprofondati nel loro mezzo
sapere e avvolti nella loro infinita presunzione, mai sarebbero stati capaci di
domandarsi che cosa mancava loro, per essere dei veri sapienti…
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